I bambini si confondono quando intorno a loro si parlano più lingue?
«No, hanno la capacità innata di discriminare i diversi suoni linguistici». Apprendere due lingue richiede uno sforzo eccessivo per un bambino? «No, l’apprendimento delle lingue durante la prima infanzia è qualcosa di naturale e privo di sforzo. Questa capacità decresce a partire dalla fine della prima infanzia, verso i 5-6 anni, fino all’adolescenza, intorno ai 12». Non a caso, quella è l’età in cui le lingue straniere diventano materie scolastiche al pari di matematica, storia, geografia e italiano: difficile, a quel punto, trovarle «simpatiche». A meno che non siano state vissute, prima, come un gioco.
Dubbi e curiosità sul bilinguismo: quello vero, di chi ha un genitore di un Paese straniero, e quello acquisito, di chi arriva alle scuole medie disinvolto come un principe ereditario grazie a corsi, lezioni private, vacanze ed esperienze all’estero. La psicolinguista Maria Teresa Guasti spiega quale deve essere, sempre, il punto di partenza: la motivazione. Quella dei genitori si intuisce facilmente: vogliono dare ai figli una marcia in più, uno strumento capace di aiutarli a farsi strada nel mondo. Difficile, però, farlo capire ai bambini, per i quali l’obiettivo principale nel loro germoglio di vita (oltre a quello di essere molto amati da mamma e papà ) è mangiare, dormire e giocare. Ecco perché Guasti avverte: «Se imparare una nuova lingua significa giocare, allora i piccoli saranno felici di farlo».
Filastrocche e canzoni sono alleate infallibili. Ma non bisogna sottovalutare l’effetto di una qualsiasi Peppa Pig in lingua originale. E se esercizi, puzzle, giochi a tema vengono fatti su un tablet o su uno smartphone, tanto meglio. «In questo caso il bambino sarà instradato non soltanto al bilinguismo, ma a quello che a me piace chiamare plurilinguismo: dove c’è l’aggiunta, cioè, del codice digitale. Per tacere del fatto che nella galassia Internet non accedere all’inglese significa restare esclusi da almeno il 90% dei contenuti per l’infanzia», chiosa Paolo Ferri, autore di I nuovi bambini (Rizzoli).
Oltre alla motivazione di cui abbiamo scritto sopra, ci vuole metodo. «Serve un progetto educativo specifico per ogni età », avverte Susanna Mantovani, psicopedagogista dell’Università Bicocca di Milano. Proprio per questo, a suo dire, è meglio un insegnante dalla pronuncia un po’ così, ma dalle ottime doti di educatore, di un perfetto madre lingua che non sa entrare in relazione con i bambini. Aggiunge: «Un’ottima soluzione è affidare i laboratori di arte, musica, scienze o tutte le attività ricreative a persone straniere, perché saranno credibili e naturali: per dire, un cuoco inglese può essere molto efficace. Non amo, per esempio, quelle italiane che per vezzo o eccesso pedagogico parlano ai figli in inglese o francese: è forzato, un bambino ha bisogno di relazionarsi con i genitori nella lingua madre, appunto. La mamma non è una maestra, la lingua ha a che fare con l’identità e con il profondo».
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